La Casa di Carta giunge al termine. Un bene, per chi ha arrancato nelle ultime stagioni, ma anche un male, dato che lascia la porta aperta a numerosissimi spin-off (uno dei quali già ufficializzato) che potrebbero non farci mai uscire da questo loop.
Sono passati tre anni da quando scrissi questo articolo, in cui per la prima (di tante volte) inveivo contro il fenomeno Casa di Carta, e finalmente eccoci qui, con la serie – e i suoi personaggi – che finalmente sparano le loro ultime cartucce prima di sparire lentamente nell’oblio (o almeno spero).
Diciamo che negli ultimi anni questa serie è stata parecchio presa di mira e probabilmente ha collezionato più detrattori che fan. Il motivo, in realtà, è molto semplice e non ha niente a che vedere con la presunta ostentazione di superiorità da parte di chi non l’ha apprezzata.
In questo articolo cercherò di essere breve e concisa – per quello che riesco – ma ci saranno spoiler, quindi se non avete finito la quinta parte potete andare avanti a vostro rischio e pericolo.
Qual è il problema principale della Casa di Carta
La Casa di Carta ha, sostanzialmente, un solo grande problema e tanti piccolissimi punti di forza. Il problema principale sta proprio qui. A livello tecnico – e qui non è Giulia di Telefilia che parla, ma l’evidenza sotto agli occhi di tutti – sembra fatta da un bambino di cinque anni che ancora non ha imparato cosa sia la coerenza testuale né che le storie devono essere scritte con un inizio, una parte centrale e una fine. In pratica, la sceneggiatura sembra scritta da un bambino che non ha ancora iniziato le elementari.
E no, io non ho chissà quali competenze, ma vi riporto un paio di esempi per farvi capire perché la totale assenza di coerenza mi ha disturbato tantissimo.
Prima stagione (che ho guardato anche piuttosto attentamente, dato che l’ho trovata quasi un buon prodotto rispetto al resto delle stagioni). Non dimenticherò mai la nonchalance con cui il Professore apre una macchina con tanto di guanti inquadrati in primissimo piano, quando pochi fotogrammi più tardi la polizia trova le sue impronte digitali nella stessa macchina. E no, di nuovo, no è una svista, perché è un pezzo fondamentale ai fini della trama.
Ancora, per venire incontro ai fan i produttori decidono di lanciarsi sul fanservice facendoci scoprire che Berlino e il Professore sono fratelli. Ora, personalmente il fanservice mi è pure abbastanza indifferente, e inoltre se fatto con criterio mi va anche bene, ma in questo caso toppa gigantesca. E sapete perché?
Berlino e il Professore hanno due cognomi diversi. Fin qui tutto bene, potrebbero essere fratellastri. Oppure ognuno potrebbe aver preso il cognome di uno dei due genitori. E invece no. Qualche anno fa Alvaro Morte (il Professore) durante un’intervista ha spiegato che sono figli di due madri diverse e che il padre aveva abbandonato Berlino per fuggire con un’altra donna che sarebbe poi diventata la madre del Professore.
Ebbene, in questa stagione scopriamo che i due fratellini vivevano nella stessa casa con gli stessi genitori. Se non basta questo per capire che la sceneggiatura di questa serie è completamente campata in aria, non so che altro dirvi, se non che il fatto di aver trasformato una semplice rapina in una guerra vera e propria per poi farla finire letteralmente a tarallucci e vino è davvero pura fantascienza.
Sia chiaro, nessuno si aspettava realismo, va benissimo così, ma a tutto c’è un limite.
I rapinatori della Casa di Carta non sono degli eroi
Altra retorica comunissima in questi anni è stata quella dei rapinatori eroi, pseudo nuovi Robin Hood, parte della Resistenza (ma esattamente Resistenza a cosa?), che vogliono sovvertire il sistema (ma quale sistema?). Peccato che poi, alla fine, tutto si risolva con l’ammissione di colpa da parte del Professore. “Scusate, papà faceva il ladro, mio fratello pure, mio nipote pure tanto che mi ha pure fregato l’oro, spero lo faccia pure mio figlio, e io che mi faccio parlare dietro?“.
Più o meno il senso è questo. Non la Resistenza. Non chissà quale azione benevola nei confronti di non so quale sistema. Anzi, se i rapinatori fossero stati gli eroi patriottici che tutta la Spagna della serie acclamava, non avrebbero mai rischiato di lasciare che il proprio paese rischiasse la bancarotta.
Senza contare, poi, che tutto si risolve in un modo talmente surreale che alla fine rimani lì e pensi che forse – forse – il finale della prima stagione era davvero un capolavoro a confronto.
Che poi a me il finale è pure piaciuto, ma non avrei fatto tutti questi episodi. Cioè ne sarebbero bastati cinque per concludere tutta la seconda rapina. Senza dover introdurre personaggi completamente inutili ai fini della trama come il figlio di Berlino e la ex moglie – che sicuramente verranno presi e inseriti di sana pianta nella tanto attesa (non da me) serie TV su Berlino.
La snervante necessità di voler creare empatia a tutti i costi
Una delle cose che mi ha snervato di più, poi, è stata questa antipaticissima ricerca di empatia a tutti i costi. Le serie TV non devono per forza creare empatia. Va benissimo guardare una serie dove non ci sono moventi romantici – nel senso ampio del termine.
Il fatto di cercare a tutti i costi una spiegazione dal punto di vista morale è stato completamente inadeguato. Non c’era una spiegazione. I rapinatori erano quasi tutti criminali o mezzi criminali insoddisfatti della loro vita che volevano fare soldi da tenere per sé e vivere una vita agiata. Fine.
Non ci sono moventi profondi, non c’è empatia. E sarebbe andata benissimo se non avessero cercato di rendere profondi personaggi che hanno la profondità di una pozzanghera.
Il fulcro della serie sono due personaggi morti
Altro grande problema sono i poli attorno a cui ruota la serie, che sostanzialmente sono due personaggi (uno scritto benino e uno che invece si odia e basta) che muoiono. In pratica la serie va avanti grazie a Berlino, che muore alla fine della prima parte, e Tokyo, che invece ci portiamo dietro come una zavorra fino alla fine ma che rimane la voce narrante nonostante sia morta. Altra cosa basilare che si impara alle elementari: il narratore di una storia non può morire.
Il resto del cast, che doveva essere corale, è ridotto a delle semplici macchiette che dopo un po’ stufano e non sono neanche un po’ originali. L’unica che sembra uscire un po’ dagli schemi, ma che risulta comunque surreale, è Alicia Serra, praticamente l’unico personaggio che non ho odiato. L’unico.
In realtà mi piaceva anche l’accoppiata Helsinki – Nairobi, ma per il resto gli altri erano fastidiosi peggio di un sasso nelle scarpe. Il Professore è indubbiamente interessante, ma dopo una-due-tre idee tirate fuori dal cappello perde davvero di credibilità. Anche se devo ammettere che, nonostante tutti i difetti, l’idea finale mi è quasi piaciuta, è stata molto meno peggio di quanto mi aspettassi.
Riflessioni complessive sul finale della Casa di Carta
Tornando alle riflessioni sul finale della serie, il problema sta proprio nel fatto che venga idolatrata così tanto senza badare neanche un minimo alla totale mancanza di qualità. Anzi, come scrissi nel primissimo articolo che feci a riguardo, il problema è che la gente sembra sentirsi giustificata a guardare qualcosa solo questa cosa può essere definita capolavoro.
Nessuno ha l’onestà intellettuale di dire “questa serie è fatta male, ma mi intrattiene e la guardo lo stesso”. Intrattenere o prestarsi al bingewatching non è sinonimo di qualità. E va benissimo così. Non tutti i prodotti devono essere di qualità, per fortuna! Tuttavia, è bene che si capisca cosa ha un’ottima qualità e cosa no.
Per fare un esempio, The Handmaid’s Tale ha una fotografia pazzesca, ed è oggettivo. This Is Us ha un ottimo cast, e anche questo è oggettivo. Ma poi – per esempio – Pretty Little Liars l’ho guardata tutta d’un fiato, e il livello è lo stesso della Casa di Carta – o anche peggio, dato che è durata molto di più e sono successe cose ben peggiori.
Il fatto che un prodotto intrattenga, non fa di esso un capolavoro. E su questo continuerò a battermi. Il successo della Casa di Carta è dovuto all’ambientazione stereotipata e ad una sorta di mitologia interna creata ad hoc (come per Squid Game), dove le uniformi e le maschere qualificano un gruppo di persone creando un legame con chi guarda. Questo è innegabile e da questo punto di vista il lavoro di marketing e promozione è stato a dir poco eccezionale.
Un po’ meno quello della serie in sé, che sarebbe risultata molto più godibile se più breve e meno inutilmente complicata. Ma non vi preoccupate, nel 2023 uscirà Berlino. E io sto già tremando.
Questa serie invece è fatta benissimo: https://wwayne.wordpress.com/2011/02/02/una-rosa-nel-deserto/. L’hai mai vista?
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